giovedì 1 novembre 2012

Svoboda

Koroleva,  Palazzo del Governo a New Moscow - Maggio 2009



Vladimir Krushenko se ne stava in piedi, silenzioso, di fronte alla finestra.
Oltre i vetri si estendeva la  vista sulla piazza interna del palazzo; quella che un tempo forse era stata una delle stive dell'Arca.
Una figura dall'aspetto marziale la cui ombra si stagliava nell'ufficio deserto, come una lama affilata nella luce fioca del pomeriggio. Le spalle rigide, le mani giunte dietro la schiena e gli occhi grigi incollati al vetro rigato dalla pioggia battente.
Quando la porta si aprì lui rimase fermo, limitandosi a pronunciare poche parole dopo lunghi istanti di silenzio, conscio di quella presenza ferma sulla soglia in diligente attesa.


-Entra e chiudi la porta, Anastasiya.

Aveva una voce bassa, virile, graffiata dal fumo cui non aveva mai saputo rinunciare nel lungo corso della sua vita.
Il modo in cui chiamava sua figlia, senza diminutivi, serviva a ricordarle sempre quali fossero le sue origini, quale fosse il suo ruolo e cosa ci si attendesse da lei.
Il tono in cui pronunciava il suo nome, in particolar modo in questo caso, esprimeva spesso il severo disappunto per le aspettative disattese.
La ragazza annuì senza dire una parola ed entrò nella stanza, facendo come le era stato richiesto.
Diede una rapida occhiata al lungo corridoio di marmi grigi che aveva appena attraversato e si chiuse la porta alle spalle, avanzando poi di  qualche passo nell'ufficio in penombra.

Anastasyia Irina Diodora Krushenko si fermò più o meno al centro della stanza, ed assunse una posizione rigida, quasi marziale, tanto simile a quella del padre che solo un cieco non avrebbe potuto notarne la somiglianza e l'impronta genetica.
Al pari del generale spostò le braccia dietro la schiena, andando a cingere il polso sinistro con la mano destra.
Indossava la divisa della divisione piloti della F.O.M.; perfettamente in ordine, con i bottoni luccicanti e stivali così lustri che ci si poteva specchiare.
Non un filo di trucco sul viso, così come imposto dal regolamento.
Non un capello fuori posto, tutti tenuti in riga da un chignon perfetto, sulla nuca.
Perfetta, così come il regolamento imponeva.

Ma quando il generale si voltò a guardarla, il lampo nei suoi occhi grigi gridò a tutto, tranne alla perfezione.

"...."

Rimase a lungo a fissarla, in un silenzio roboante di rabbia, delusione e patriarcale accanimento.
Gli occhi del Generale non riuscivano a staccarsi dal volto della figlia.
Dallo zigomo sinistro di lei, per l'esattezza.
Dalla pelle ancora arrossata a causa del fregio che in quel momento gli riempiva lo sguardo.

Un drago.
Un drago tatuato sulla guancia di sua figlia. Una delle migliori pilote a disposizione della flotta Moscovita. Una promessa per la sua squadra, per la sua famiglia, per Lui.

Anastasyia Irina Diodora Krushenko non distolse mai gli occhi, nemmeno per un istante.
Offrì al padre quel sorriso storto e sottile che da sempre lo irritava, e che in quel momento, scavandosi la via sulla guancia sinistra, non fece altro che animare ulteriormente la fonte del suo sgomento.

"Cosa c'è, padre?"

Chiese.  La voce risuonò bassa, calda, quasi musicale. Vibrante di una sollecitudine tradita soltanto dalla luce di sfida che le animava gli occhi verdissimi.

"Non sei ...felice di vedermi? " 

Domandò, ancora. Con maggior durezza, nel tono e nello sguardo affilato.

"Dopo avermi lasciato una settimana in mano a Sark, pensavo saresti stato felice di vedere che sono ancora viva...e piuttosto in salute, tutto considerato."

Vladimir Krushenko rimase a guardarla, serrando la mascella in una morsa tagliente, figlia della tensione e dell'irritazione presenti in lui.

"Si è trattato di un provvedimento interno.  Una semplice lezione da imparare, Anastasyia. 
Il rispetto per l'Autorità."
"Non ne resterà alcuna traccia sul tuo ruolino."

Lei sorrise, sottile e fredda quanto il vetro su cui la pioggia continuava a battere insistente.

"Se è questo che ti racconti per dormire meglio la notte, Padre. "

Alzò le spalle esili e toniche, sciolse l'intreccio delle mani solo per sfiorarsi con l'indice destro la guancia tatuata.

"Questa è la mia, lezione. Si chiama Libertà."